Periodico online di letteratura contemporanea

martedì 14 dicembre 2010

I tre filosofi



Questo breve scritto si potrebbe intitolare anche: "I tre scrittori" oppure "Ho smesso di ridere", potendo pensare che gli scrittori si siano addormentati in un sonnellino autunnale, per poi cadere direttamente nel lungo letargo dell'inverno. Ma, come racconta la storiella, anche io potrei avere il naso sporco...


Tre filosofi, dopo aver a lungo discusso di logica, si addormentano sotto un albero. Mentre dormono, tre uccellini depositano un piccolo escremento sulla fronte di ciascuno dei tre filosofi. Dopo alcune ore, quando gli escrementi si sono asciugati a dovere, i tre filosofi si svegliano. Guardandosi l'un l'altro, iniziano improvvisamente a ridere. Infatti ciascuno di essi vede l'escremento sulla fronte dei due compagni e, poiché i filosofi non sono santi, ride delle disgrazie altrui credendo di esserne immune. 
Tuttavia, dopo alcuni istanti, il più filosofo dei tre smette di ridere perché si rende conto di avere anche lui un escremento sulla fronte. Egli giunge a questa conclusione solo col ragionamento, senza tastarsi la fronte.
Qual è il ragionamento?
Perché egli è più filosofo degli altri?

Questo racconto è a prova di sonno filosofico o artistico. Serve a testare il grado di reattività dei soggetti eventualmente coinvolti.
Disse un grande pensatore del passato: "Il sonno della ragione genera mostri".
Sarà mica vero?

martedì 23 novembre 2010

Esperimenti crudeli

Ho piacere di ripubblicare, alla vostra attenzione, una tetralogia di racconti che ho a suo tempo inserito in un blog di cui sono stato animatore.

Questi racconti descrivono alcuni aspetti della vita attuale descritti in chiave fanta-spirituale. Buona lettura.

Un Crudele Esperimento (1)



Dal diario di uno dei sopravvissuti dei "viaggi nel tempo":
"... All’improvviso ci trovammo in un mondo parallelo, ove la seconda guerra mondiale l’avevano vinta i nazisti. Le icone del Terzo Reich erano presenti ovunque nel pianeta.
Ma -riuscimmo in seguito a scoprire- che c'era un luogo segreto ove questo non accadeva..."


Vi racconteremo ciò che accadde nel deserto del Sahara, dove i carri di Rommel avevano fatto piazza pulita degli avversari, molti anni prima. Accadde agli inizi degli anni ’70, tenendo presente che in questo mondo-specchio le cose erano andate molto diversamente dalla storia che era stata raccontata nel secolo da cui provenivamo. Adesso ci trovavamo lì a causa di uno spaventoso incidente che aveva sparso i nostri corpi nel mare dl tempo, e proiettato le nostre coscienze altrove, come se fossero ancora vive. Per molti anni, non avemmo alcuna speranza di tornare indietro, e ci toccò nasconderci per evitare che ci arrestassero.


In questo nuovo mondo, i medici neonazisti, eredi dei loro famosi e crudeli predecessori, stanno adesso studiando le reazioni della psiche umana sotto particolari condizioni che definiamo senz’altro anomale.
Una delle domande a cui si tenta di rispondere è la seguente: se alleviamo un certo numero di esseri umani in condizioni di isolamento rispetto al resto del mondo, e diamo loro una serie di informazioni distorte sulla realtà, essi tenderanno ad accorgersene? E fino a che punto essi utilizzeranno nel loro sviluppo mentale dei codici informativi innati? Lo scopo subdolo è, ovviamente, quello di valutare se alcune razze, considerate inferiori, possono essere schiavizzate senza che se ne accorgano.
Per realizzare questo esperimento viene costruito in pieno deserto -in una località segreta sgomberata dalla presenza umana esterna per un raggio di 700 km- un immenso campo di concentramento, cha ha un perimetro interno di 320 km. A delimitare il “campo”, vi sono otto barriere concentriche, costituite da muri bianchi e lisci, alti ben 35 m in più per ogni perimetro successivo, posti ad una distanza di 15 km l’uno dall’altro, e separati dalla rovente sabbia e sterile del deserto. All’interno viene posta una popolazione-prototipo adatta all’esperimento, descritta più avanti. Ammesso che qualcuno riuscisse a salire sul primo muro, si troverebbe di fronte un spettacolo desolante. Avrebbe la percezione ottica di un deserto infinito ed inospitale, dissezionato da muri di cui non si intravede alcuna fine. Avrebbe la sensazione che, al di fuori del campo non vi sia nessuno, e che vi siano barriere insormontabili, dove non val la pena nemmeno di cercare. Anzi, chi avesse il coraggio di valicarli, perderebbe di certo la vita. Le strisce desertiche tra un muro e l'altro sono state disseminate di ossa umane e animali, per scoraggiare anche il più disperato dei prigionieri destinati all'esperimento. Nel campo vengono poste le strutture e le risorse essenziali e rinnovabili per la sopravvivenza, ed un minimo di attrezzature per fare eventuali creazioni o riparazioni, tipo laboratori semi-attrezzati.
Vi lavorano un certo numero di dipendenti che hanno il compito di allevare dei neonati che sono stati forzatamente strappati ai loro genitori. I dipendenti nazisti hanno l’obbligo di non parlare mai tra loro, per fare in modo che i bambini, crescendo non imparino nessuna lingua per comunicare, ma possano farlo solo a gesti. Naturalmente non vien dato nessun tipo di istruzione o educazione: li si nutre semplicemente, fino al momento in cui, a gesti, gli si impone di divenire autosufficienti, mediamente all’età di 10-12 anni. I ragazzi non vengono mai separati in alcun modo, né per età o sesso o altro, di modo ché tra loro possano interagire liberamente.
Gli originari “allevatori” dei bambini-cavie, sono stati completamente sgomberati dal campo dopo i primi dieci anni di esperimento, quando un numero sufficiente di ragazzi aveva raggiunto l’autosufficienza. I sistemi di controllo sono sostituiti da tecnologie raffinate ed invisibili ai loro occhi, costituiti da telecamere e microfoni spia, a registrazione continua ed in teletrasmissione. Una specie di grande fratello non televisivo, che funziona molto meglio poiché i ragazzi sono ignari dell’esistenza di queste tecnologie.
Alla fine degli anni 90, in quel mondo parallelo dove i nazisti hanno vinto, sinteticamente vengono pubblicati i primi risultati delle ricerche compiute, che sono di seguito illustrati. La ricerca viene dedicata simbolicamente al Furer, per il centenario dalla sua nascita, a poco più di 15 anni dalla sua morte. Qui di seguito, in sintesi i risultati.
I ragazzi crescendo hanno imparato da soli ogni cosa che riguarda l’autosufficienza e la sopravvivenza.
Hanno stabilito tra loro relazioni di supremazia, secondo la priorità del più forte.
La violenza e l’assassinio sono forme di relazione normali tra gli individui.
Lo sviluppo linguistico è limitato a mugugni, che sono accompagnati da gesti espliciti, solo in parte tramandati dagli originari allevatori.
Abbandonati a sé stessi, i ragazzi sono in grado di sopravvivere, ma ignorano le loro origini.
Qualcuno ha tentato di costruire rudimentali scale per scavalcare i muri, ma senza riuscirci, ed in qualche caso facendosi male.
Chi si ammala seriamente è destinato a morire, e non vien accudito o curato dagli altri; non è detto che la sua morte venga accelerata.
La solidarietà è inesistente, ma si creano gruppi e fazioni di interesse per il controllo dei beni, degli spazi e dei territori, sorta di clan pseudofamiliari.
L’amore è inesistente, ed i rapporti sessuali, frequenti sin dalla tenera età, non hanno alcun fine relazionale, ma sono limitati al soddisfacimento della libido.
La nascita dei piccoli è vissuta in gran parte inconsapevolmente, ma le giovani madri tendono a legarsi ai figli in modo viscerale, il che spesso scatena ulteriori conflitti tra gli abitanti del lager. Questo legame madre-figlio non è necessariamente ciò che definiremmo amore.
A oltre 30 anni di distanza dall’inizio dell’esperimento, gli abitanti non hanno compreso il significato e l’utilità di molte delle attrezzature a suo tempo lasciate loro in dotazione. L’agricoltura e l’allevamento vengono praticati in forma rudimentale.
Gli ideatori dell’esperimento avevano inconsciamente disegnato la mappa di questo particolare campo di concentramento secondo strutture concentriche e ripetitive. Senza volerlo, hanno emulato una particolare caratteristica che conduce la mente umana nel labirinto di sé stessa, ove la prigione è fatta di mura create dallo stesso soggetto. Quando l’essere umano vede davanti a sé una struttura di quel genere la “riconosce” come vera, così rafforzandola.
Se nell’universo ogni cosa è contenuta in un’altra più grande, ma di natura simile e rispondente (Pianeta > atmosfera > sistema solare > ammasso stellare > galassia > nube cosmica > limite dell’universo apparente…), orbene seguendo questa strana similitudine adesso i pensatori nazisti cominciano ad interrogarsi se, per caso, il pianeta terra non possa rappresentare un lager di cui essi stessi ignorano l’origine ed il significato, visto che questa umanità, per quanto frazionata in razze inferiori e superiori, nel suo insieme non ricorda nulla delle proprie origini. Cominciano a chiedersi se il sistema solare non possa essere stato appositamente creato non da Dio, che probabilmente non esiste o non interviene, ma da misteriosi esseri alieni ben più nazisti di loro. Una prigione autosufficiente, senza sbarre, concentricamente ripiegata su di sé, affinché nessun terrestre pensi di poterla valicare fisicamente senza la benché minima possibilità di tornare indietro vivo. E se quand’anche qualcuno ci riuscisse, non vedrebbe altro che il vuoto interstellare, praticamente invalicabile con il corpo fisico a causa dell’enormità delle distanze. Adesso questi ricercatori, rosi dal sospetto, stanno cominciando a sviluppare tecnologie e sistemi individuali per ampliare le proprie capacità di percepire, usando sistemi alternativi alla vista. E soprattutto i loro fisici  (esattamente come avevamo fatto noi nel nostro mondo di origine) stanno cominciando a ricercare quella misteriosa dimensione che è il Tempo, per scoprire se questa porta apparentemente blindata non possa essere scardinata in qualche modo.

Nonostante il loro freddo e rigoroso materialismo, i nuovi ideologi del nazismo di questo mondo parallelo al nostro, stanno cominciando a prendere in considerazione la possibilità che l’uomo, come specie, possieda una qualche forma animica, che sia in grado di rafforzare questo stato atavico di prigionia.
A quel tempo, eravamo solo alla fine degli anni ’90.

domenica 21 novembre 2010

dentro, il silenzio

nel silenzio
la sillaba principiante senza parola o suono
che a tratti verticale ridisegna muti passaggi
cerimonie dove indulge il canto
- l'ombra luce - il viaggio





lega quel cercare un ordine comune
alla complicità che del silenzio
duplica le ombre, le mani a recitare il corpo
al buio, a terra un filo che disegna dita, sbavature
impigliate sotto pelle, fuori posto
ovunque

cinge quel tepore di muschio, i suoni di betulla
le pause come richiami, a nord, dove l'alito è preghiera
in cima e sotto
s'assestano radici piano. ad allargarne il senso
accade la mancanza, il ritorno a casa, infine
dentro



(poesia selezionata al concorso Verba Agrestia 2010 e pubblicata in antologia)

venerdì 5 novembre 2010

Una storiella su Gesù

Ovvero: come NON trovare l’illuminazione ed esserne felici

La sapete quella lì di Gesù… eh?…ma no, quell’altra, la storiella di Gesù che entra in una chiesa e rovescia i banchi? No? Va bé, ve la racconto…


Un giorno dei lontani anni sessanta, nel deserto collinare di un meridione abbandonato, dentro una chiesa di un paese di campagna, si sente un gran frastuono. Oggetti che cadono, vetri che si rompono e via dicendo. Il sacrestano corre ansimante nelle stanze del parroco dicendogli: “Padre, Padre, Padreehhe…AH…AHAHH…AAHAAAlfonso, accorrete….presto! ….Di la c’è un pazzo che sta rovesciando tutto quanto per terra! ”. 






Padre Alfonso corre in chiesa e vede un uomo magro e barbuto, piuttosto mal ridotto, con degli stracci addosso e la pelle un po’ olivastra, i capelli scuri, lunghi e pasticciati, che si affanna a rovesciare le panche della chiesa. Ha già gettato terra gli oggetti dell’altare e devastato le statue di ceramica. E questo manda in bestia il parroco.

Che stai facendo, pezzo d'incosciente? Chi sei, che cosa vuoi? Adesso ti faccio vedere io...” e si avventa verso l’uomo per aggredirlo. “No, padre, fermo, ci penso io, corro a chiamare i carabinieri! Voi cercate di intrattenerlo”, dice con voce tremante il sacrestano trattenendo il prete per il braccio.
Intanto l’uomo, imperterrito, continua a darsi da fare.
Padre Alfonso si fa coraggio e decide di avvicinarsi a quell’uomo che, adesso stanco, si è messo a vagare, come se cercasse qualcosa tra le panche a gambe all’aria. E’ irrequieto, e così il prete gli pone la mano sulla spalla per calmarlo.
Chi sei? Perché hai fatto questo...
Si volta, e due occhi neri e profondi finalmente lo guardano, e si rivolgono a lui. Un silenzio interminabile lo lascia quasi senza fiato. Richiama un presagio seppellito.
Sono Gesù Cristo, e sono venuto da te perché so che sei uno tra i preti più sinceri che io conosca. Grande è la tua fede, ma incerto il tuo cammino…”
Da un lato Padre Alfonso si sente lusingato, dall’altro ovviamente non gli crede.
Senti un po’ questo che dice? E così tu saresti nostro signore Gesù Cristo in persona?”
Precisamente. Sono venuto per ripetere ciò che ho già fatto ed è scritto nel Vangelo, perché da allora quasi nulla è cambiato. L’uomo ha continuato a dare la massima importanza alle cose materiali, dimenticandosi di se stesso e del suo compito. E anche perdendo il contatto con il Padre.”
E come vuoi che io ti creda? Se sei veramente Gesù Cristo, dovresti farmi vedere un miracolo, o qualcosa di straordinario. Allora potrei crederti.”
Io sono venuto da te per darti dei suggerimenti e dirti cosa dovresti fare per cambiare te stesso, non sono venuto a fare altri miracoli se non questo. Allora, sei disposto a seguirmi per le vie del mondo, a lasciare la tua vita sicura per un’altra totalmente incerta?”
Certo che no, se prima non sono sicuro di te.”
Ascolta –risponde lo strano Gesù- il fatto è che io non posso più fare quel tipo di miracoli, perché il Padre mio mi ha tolto i miei poteri.”
Ah, si? E come mai?”
Lui dice che non dovevo farmi ammazzare in quel modo, e che avrei dovuto riuscire fino in fondo nella mia impresa. Adesso posso soltanto apparire fisicamente dove voglio e parlare con chi voglio, solo che nessuno mi crede più. Anche se io non mi stanco mai di predicare.”
Cosa predichi?”
Io predico la libertà da ogni fede, dico che l’Uomo si deve ribellare da ogni forma di schiavitù, se vuole trovare Dio. Io sono fisicamente risorto per sempre, e voi che dite di essere cristiani non fato altro che far rivivere la mia morte ogni anno ed ogni giorno. Sapete dipingermi solo sul crocifisso. Basta, non ne posso più, io sono vivo, in carne ed ossa in mezzo a voi!” E mentre dice così parte come un fulmine verso il grande crocifisso sospeso sull’altare, per abbatterlo…
Padre Alfonso si getta su di lui per fermarlo, ma nel frattempo ecco i carabinieri che irrompono in chiesa.
Fermo là, sei in arresto!” E si gettano sul poveruomo, lo immobilizzano lo ammanettano, e nonostante le sue proteste ed i suoi tentativi di divincolarsi, lo prendono di forza, lo caricano sulla camionetta e lo portano via.
Ci vediamo domani per scrivere il verbale di accusa, Don Alfonso.” Così dice il maresciallo, con pesante accento napoletano, prima di uscire dalla chiesa.
Don Alfonso rimane impietrito, sconvolto. Si ritira in sacrestia, ordinando al sacrestano di rimettere tutto a posto.
Ma non finisce qui. Per tutta la notte il povero parroco si volta e si rivolta nel letto, pensando a quegli occhi scuri e penetranti. E se fosse tutto vero? Se non fosse un pazzo ma Gesù in persona, venuto a richiamare i suoi fedeli alla vita vera? Finalmente si addormenta, ma ecco l’uomo che gli appare in sogno, e gli dice: “Alfonso, Alfonso, perché non mi hai riconosciuto? Allora sei proprio uno str...! Io vengo per fare di te un vero pescatore di uomini e tu mi mandi i carabinieri? Non capisci che io non ho il limite della morte? Voi uomini di chiesa avete inventato la storia della nuvoletta che mi ha assunto in cielo, ma io lì non ci sono mai tornato, perché sono risorto per sempre nella carne, e finché mondo esisterà io esisterò con lui.”

Questo è troppo! Alfonso si sveglia di soprassalto, è già mattina, allora con un balzo va a vestirsi e, senza far colazione, corre dai carabinieri.
Bussa alla porta e da cortile si mette a urlare: “Maresciallo, maresciallo, fatemi incontrare quell’uomo!”
Ohé, calmatevi don Alfonso! vi accompagno subito da lui!”, fa il maresciallo tirandosi su la cintura.
E così lo introduce in caserma, e dopo un paio di stanze lo introduce nel corridoio delle celle: “Dopo di voi, don Alfonso”, girando la maniglia. “Non fateci caso alla monnezza, non sono celle, chist’è ‘na chiavica!”
Entra per primo Alfonso senza guardare, ma poi: “Oh mio Dio, e che è sta baraonda?”, urla il prete alzando le mani intesta e afferrandosi i pochi capelli.
Il maresciallo entra anche lui, e resta a bocca aperta: “Maronna ro carmine!” e si schiaffa il palmo della mano sulla fronte, sconfortato.
Vedono la porta di ferro semiaperta, la chiave nella serratura, e il corpo di Cirillo -l’appuntato di guardia- stravaccato a terra. In fondo al corridoio c'è la finestra spalancata, da dove si vedono colline color fieno e si odono le cicale che stridono come ogni giorno d'estate. Precisamente: un odore di aria calda, un senso di vuoto e di abbandono.
E’ morto?”
No, dorme, o forse è svenuto!”, e mentre dice questo il maresciallo guarda per terra: poco distante dal corpo del militare, e dal suo berretto rotolato sotto i piedi di una sedia lercia, c'è un foglio di carta.
Lo prende e lo guarda con gli occhi un po' storti. "Leggete voi, don Alfonso. Che c’é scritto? Io nun ce capisc ‘na mazza!”
Che strana calligrafia... dice così: Mi dispiace, ma io non ho altro tempo da perdere. Devo andare. Dal momento che non mi avete riconosciuto non mi posso soffermare ancora con voi...”.
E subito, al prete torna in mente la scena del sepolcro vuoto di nostro signore. Comincia a tremare dalla paura.
C’è scritto solo questo?” continua il maresciallo alitando un odore di cipolla.
No, continua: Non pensate ad un miracolo, ve l’ ho detto, io non ne posso più fare. Sono stati i miei amici ad aiutarmi, hanno addormentato il carabiniere col cloroformio. Poi hanno tentato di trovare la chiave, ma non ci sono riusciti, e allora hanno dovuto scardinare la porta. Io vado, e continuo per le vie del mondo. Mi servono altre persone disposte a seguirmi veramente, ad ogni costo. Noi andiamo dove c’é bisogno, dove la gente soffre per la propria schiavitù. Un’ultima cosa: dovreste curarvi di più, prendete due granelli di senape al dì, mattino e sera, vi farà bene fino a quando non avrete imparato come si fa a spostare le montagne. Addio per sempre.’ finisce qua questo scritto.”
E che vuol dire, Don Alfonso? Sottovoce: (Io non ci capisco nù caz…’e nient! )”

Don Alfonso si abbatte sconsolato su una sedia, e comincia a singhiozzare; ha capito (o così crede) di aver perso per sempre l’occasione della sua vita. Lo assale il dubbio che quella storia dei poteri e dei miracoli era un trucco per metterlo alla prova... Si convince che l’unica cosa che gli rimane da fare sia quella di ritirarsi in canonica a pregare, e (forse) a fustigarsi.


Questa è una storia che racconta di illuminazioni perfettamente coincidenti: cioè vere, presunte o mancate. 

L’evoluzione dello spirito, la via che conduce verso Dio, non sarebbe di per sé un problema, in qualsiasi credo del mondo conosciuto. Il problema è ciò che una fede, quale che essa sia, produce dentro ogni essere umano. Ancor più grande barriera inesistente, è il vuoto interiore che ha generato la necessità di credere ciecamente in qualcosa che ogni uomo è convinto di non poter mai raggiungere. 



Se fossi vicino ad un Maestro, ad un illuminato, saprei riconoscerlo? E poi, saprei davvero seguirlo, ovunque lui volesse condurmi? La fede non basterebbe, essendo sopraffatta dall’orgoglio e dalla presunzione. Dalla paura.

Quand'anche l'abbiamo trovato, allo stesso modo capita che se il Maestro ha deciso di lasciarci, perché non ha più tempo per noi, vorremmo ingabbiarlo nella nostra stessa prigione, vorremmo che ci raccontasse altre storie, perché quelle che già sappiamo non ci bastano ancora. Preferiamo seguire idealmente un’ombra immateriale, il volo di un fantasma che sta per sparire, piuttosto che una persona in carne ed ossa che fa delle cose che noi non oseremmo. Ad esempio, abbandonare i nostri "credo".

Illuminazione? No, macché, sarebbe troppo triste guardare un paesaggio oltre le sbarre, vedere la luce da dietro i vetri opachi, non osando pensare che la finestra è da sempre stata aperta. Non riusciremmo minimamente ad immaginare che Dio, come ciascuno di noi, non è mai uscito dalla cella buia: quello è proprio l’ultimo posto dove avremmo pensato di cercarlo. 

Crediamo davvero che il Maestro abbia fatto scardinare la porta dai suoi fidi combattenti, invece che aprirla con la sua giusta chiave. Ma il Maestro ha tutte le chiavi...!

Di fronte a così grande sorpresa, noi preferiamo pensare che si sia librato in cielo, spiccando il volo dalla finestra in fondo al corridoio. E invece era nascosto sotto la branda, e se la rideva. Ma nessuno poteva crederci.


Scritto da Cernia nell'aprile 2005
-revisione ottobre 2010

martedì 2 novembre 2010

What we can do here as bloggers? Cosa facciamo qui e insieme?


Le possibilità sono tante. Secondo me, se di questo spazio facciamo solo una vetrina delle cose personali, con commenti prudenti e carini, siamo limitati. Forse cominceremo a sentire un peso alla testa.
Io preferisco pensare che vi sarà anche qualcos'altro, e che stiamo solo rompendo il ghiaccio.

Io non so se le persone che hanno cominciato ad inviare i loro materiali gradiscono o meno commenti ed osservazioni che possono non essere a favore. Allora... vorrei saperlo!

Io si, preferisco e consento a tutti anche una critica sincera alle cosa che scrivo, non solo nella forma ma anche rispetto ai contenuti: questa forse è la parte più interessante. Perché comincia a svelare meglio i personaggi che noi rappresentiamo.

bacioni da Cernia

domenica 31 ottobre 2010

Sottovento (breve silloge)


ti rimango estrema
ultima svolta sulla mano
una parabola di silenzio
                  la nostalgia
fuori da ogni sguardo
la luce s'approssima
a una rincorsa contro il tempo

uno spiraglio che mi spoglia
della forma del buio

una - O - perfetta sulle labbra
una scorciatoia all'alba

e io stesa lì tra le tue dita
                            in breve
 riconto cartilagini e ossa
sottovento


***


... sono
l'illogica tenerezza che ti sfiora
e segna al nuovo grembo
un'impronta di faro

... sei
vergine al tocco
come un bacio che declina
su insegne di mare
il suo rumore


***


ti resto appena un fiato sopra l'amore
quando il giorno mormora le sue frasi
di commiato
una tenerezza di preghiera masticata
imprevista pausa che svapora all'improvviso
e trema
poi ti riprendo tra le labbra e quella linea
un solco di rame lungo la schiena


***


girasoli ai lati della bocca
e m'invento la paglia tra i capelli
con linee che non so ancora disegnarti

in quest'asimmetria di corpi tesi
alla brevità di un bordo che sospetti
di nomi differenti

alla provocazione che sfugge ai fianchi
quando ti annunci nelle assenze
e in me dimori


***


segue la via dei forse l'amore
indifeso quando lo senti
contare le dita
e non il futuro delle cose

un odore dolciastro di parole nascoste
questo forse resta delle rose
lo stupore che dell'altro innamora
quando tutto è silenzio

e di noi rimane indietro una curva
un accenno
il ritrovarsi nei fuochi
nell'acqua

sopra le pause appena
in occhi distanti un soffio di labbra


***

mostrami 
le cuciture di un'ombra sulla saracinesca
un ferro ondulato, una vite, una pietra
un inciampo di nomi e
- continuo a chiamare cose -
persino i tuoi occhi e le poesie

forse dovrei allineare l'allegria
                           la pazzia al margine destro
cambiare stesura alle parole

prima di capire - ne sono sicura -
saremo pronte
a colare radici dentro l'acqua
o lasciarci attraversare dall'anima di un calice

distratte avremo iniziato l'amore
al nuovo corso

***

è quando le vedi migrare al vento
che le foglie tremano
come i tuoi occhi allo scoperto dei miei sensi

quando percepirti diventa un luogo
una fessura che tradisce il giorno

l'apnea del tempo sul dorso della mano
spigolo nudo su cui riposano crepuscoli

semi che impari a proferire
quando premi le dita sul mio fiato
e mi richiami





mercoledì 27 ottobre 2010

Una pistola a fumo

Un esordio, il mio, poco ortodosso, ma i miei racconti sono, come dire, un po' fuori le righe, questo è nato durante una notte insonne, una tra le tante e da una lunga chiaccherata con quella che sarebbe diventata la protagonista di Una pistola a fumo, la mia eroina Mozzafiato.
 E' racconto che potrei definire demenzialfuturista, il cui scopo era la creazione di un nuovo slang, un linguaggio post atomico, da the day after, per intenderci.

Una pistola a fumo (prologo in mezzo)


Era il diaciannovesimo angolo che slittava, prima di ricadere sul monitor della sveglia, arruffata, in posizione trasversale al letto.
A ripensarci, occorreva mettere una crocetta al calendario, erano anni che la scadenza della sera coincideva con la messa a punto della sua carrozzeria. Ne andava fiera. Per praticità l'aveva suddivisa in quattro parti, altrimenti definiti 
arti nella preistoria, per facilitare la manutenzione sensoriale.
La parte anteriore destra riluceva d' una patina di santità, l'aveva comprata nel Terzo Ripostiglio, dove c'è lo spaccio delle essenze subliminali e delle carestie interstiziali, per pochi grumi di energia. La sinistra aveva un inanellamento lineare con funzione psicopedagogica, equivalente alla
 stronzaggine (termine ancora in uso nei quartieri stream), ma solo nelle rotonde, prima di imboccare l'autostrada. Lo scappellamento a volte era in calibratura standard, ma lei lo preferiva in frequentazione modulare.
Le parti posteriori seguono andature all'occorrenza e come le motrici hanno rifrazioni solari che riflettono passanti con successo.
In quel momento squillò il frequenziometro verbale ad alta velocità, seguito da un soffio gelido di squame di pescecane (l'ultimo ritrovato satellitar, il multiaroma): era Al, a volte detto anche Il, in diversa stagionatura perimetrale. Ci fu uno scontro di carrozzeria, come un trancio di vecchia pescheria in un giorno di mazza gravitazionale. Lui era il premio al pugno in faccia secel'avevi ancora, e lei si stava appena ricaricando, dopo una cena in versi di caviale d'
altritempi, un assaggio straripato che tanto risicava in cerchi stinti.
Era solo un assaggio, ma prometteva bene. Lo aveva incontrato nel garage Trafori d'Urgenza, del suo amico Din Marmitta, un mezzo fantasy che non muore, dal cuore molle, che la faceva schiattare coi suoi spuntini acidi ai pochi clienti di passaggio. 





Veronica 
ed Al



Al o Il quando sostava in vena, era un rifatto della quarta generazione, quella degli scarti subatomici delineari, mascella al silicone, carrozzeria anteriore al plasma, occhi computerizzati, di vetro tiffany, una rarità antica, da collezionista fetish, subito scambiati, al Self Dierector Day con una tanica di splin, gli ultimi ritrovati molecolari dei motori solari, ottimo combustibile per le nuove slidecars. Una vera passione per Al, più delle donne, che del resto, non lo demagnetizzavano nemmeno. Ma lui aveva in serbo qualche sorpresa, una dandy coccolosa che faceva colpo persino sulla Mozzafiato, Veronica, la rifrangente colonna vertebrale in assetto spinto. L'aveva vista sulle copertine, dietro la città antica, la Mezzacollina, in ologrammi a puntate proiettati sulla nebbia.
Dicevano fosse la fidanzata di Vic Resort, One Member del Post Center Village, l'immenso rifugio multimediatico per navigatori multiplanetari. Ma Al, non sapeva credere ai trush rimaneggiati delle operazioni super allusive e preferiva attendere.
Din Marmitta, come al solito, interruppe le sue divagazioni sinaptiche, rischiando di cortocircuitarle nei sentieri mnemonici a particelle: Veronica lo aspettava a casa, nel suo stage di prima grandezza. Doveva solo ricordarsi della scorta di energia che aveva reso streep al doppio malto, una vera prelibatezza di cui la Mozzafiato non riusciva a farne a meno. 



Mozzafiato si tiene in forma
Veronica, in discesa dal corrimano, per il consueto flet and gym, era disgustata al pensiero di rivedere Al, Il Buzz della Carioca, ma aveva bisogno dello streep al doppio malto e, per affari lesti, Al era imbattibile. La Mozzafiato voleva convincere il suo amato Vic a caracollarle una page on line, una riflessione coronarica, da tempo consumata, una specie di amoroso stand by dai microchip e vi assicuro, una fatica immane, persino per lei "in attrezzo spinto". 

Al arrivò caracollando, col ghigno fluorescente di schiuma al doppio malto, se ne era fatto fuori un litro. Le spinse la carrozzeria contro il muro che puzzava come una marmitta di scarico del 2015, pensando di averla a pugno, ma Veronica, vissuta nei quartieri di terza generazione, tra i mutanti, si scansò di lato, sfiorando il fetido con un gancio, poi affondò la punta del suo stivale di metallo nel basso ventre del malcapitato che si abbattè sul pavimento. Al accennava farneticando la resa sul tappeto, mano a tamburo, implorando adesso.
 A Mozzafiato sarebbe bastato poco per farlo fuori, e ci provava pure un certo gusto, ma le serviva l'allenamento che il Buzz le offriva a poco prezzo. Finito il match, prese lo streep e si volatilizzò oltre la porta, lo travasò nei concentrati di narcosine, che teneva come scorta e si accinse alla serata, in autonomia binaria, oltre i cancelli. 





Il finale

Fuori l'aspettava, smilzo d'occasione, Din Marmitta, rivestito di pochi grumi d'energia, un prezzo sporco per chiudere occhi all'amicizia con una pistola a fumo, residuato bellico post evoluzione, scambiato in genesi, con un treppiedi di mutante. Una bomba chimica d'occasione, fabbricata a Soke, Primo anello della Catena , una specie di fornace, frequentata dai Crime, i Guardian Spie.
Din l'agente speciale aveva paura d'essere scoperto a rimaneggiare grillet e Veronica era andata troppo vicino a scoprire fonti, tracce in sospensione di lui e Vic, intenti a traffici di chips, aveva il fiuto di un segugio al transito di rarefazioni.
 Veronica, in aerobica tigrata, fendeva spazi con brevi salti in accelerata, senza distrazioni coltivava idee d'appartenenza semicolata al disastro innaturale, sapeva che avrebbe dovuto scegliere tra il cuore e il suo fiuto di travestito sbirro multimediale. I sensi all'erta di un addestramento, rivelavano la sua natura di ragazza cresciuta in isolamento antiglicemico. Sentì l'odore spesso della muffa acida, il multiaroma frequenziale le restituì l'immagine di Din e di un ordigno micidiale, una pistola a fumo. Ne conosceva l'uso per averne costruita una quando era piccola, sotto l'occhio vigile di sua madre, un generale di quarta era, destinata al trans di mutazione satellitare. Ne riconosceva persino il suono, quel sibilo di freccia che precede il lampo e il buio esistenziale. Roteò su se stessa e spicco il salto prima di essere raggiunta dalla scarica, poi colpì a sua volta e uccise l'avversario con tre unghie conficcate nella giugulare.
 Effetto macabro ma le aveva prese nuove al standard vacuale, uno shop d'immedesimazione multirazza, unghie di pantera morfologicamente mutuata da Horror Vacui.
Quando s'accorse era Din Marmitta pianse, frugò il frequenziometro digitale e ottenne il nome del suo nemico. Era lo stesso che avrebbe voluto amare. Restituendo esodi alla notte, girò le spalle lucidò l'anca della carrozzeria e salì sul primo glenvit a testoruote, diretta a casa. Domani, forse. 

LE AVVENTURE DI MIRELLA TOMBINI

Voglio mettere in lettura i primi episodi di questa serie apparentemente per bambini (ma non è così).

LE AVVENTURE DI MIRELLA TOMBINI

Mirella Tombini oggi è andata a scuola. Ci va tutti i giorni, naturalmente, ma di solito arriva in ritardo. Non c'è un motivo vero e proprio per cui arriva in ritardo, diciamo che Mirella non è capace di arrivare in tempo.

Ma oggi è la prima, lì, davanti al portone, perché non vede l'ora di dire alla maestra e ai compagni che anche lei ha il diario. Mirella Tombini è la bambina meno organizzata della scuola: un giorno si dimentica i quaderni, un altro la penna, un altro ancora sbaglia l'aula, un altro ancora ancora va a scuola di domenica, per distrazione.

Il diario, finora, non c'è stato verso che ce l'avesse: le sta antipatico, forse perché è un oggetto tutto così precisino, e non l'ha neanche comprato. E la maestra la sgridava, e i compagni la prendevano in giro.

Ieri pomeriggio, però, una sua zia che fa la cartolaia gliene ha regalato uno ricchissimo, pieno di vignette colorate, e Mirella ha scoperto che il diario può essere un oggetto bellissimo e utile.

Finalmente la scuola apre, arrivano i compagni e poi la maestra. In aula, nel suo banco, Mirella non si contiene più.

“Signora maestra, indovini: da ieri ho anch'io il diario. Mia zia, che ha una cartoleria, me ne ha regalato uno bellissimo!”

“Bene, Mirella, benissimo, sono sicura che ti piacerà molto usarlo.”

“Volete che ve lo faccia vedere?”

“Sì, sì!”

Tutti i compagni di Mirella sono curiosi. Mirella fa per prendere il diario dalla cartella ma... ma... la cartella non c'è, Mirella l'ha lasciata a casa.

“Mi dispiace, signora. Scusatemi tutti.”

“Non importa, Mirella,” dice la maestra. “Ora hai il diario ed è già un passo avanti. Vedrai che domani riuscirai anche a portarlo a scuola.”

Quando si presenta qualche problema pratico, Mirella Tombini è la vera specialista: lei riesce a risolverli tutti. Ormai lo sanno bene sia i compagni sia gli insegnanti e così dapprima si provano loro a risolvere il problema, poi lasciano che se ne occupi Mirella, con risultati sempre risolutivi.

Alle volte è solamente questione di estro: Mirella pensa in modo bizzarro, originale, e ha idee che altri non hanno; altre volte, si tratta di manualità e senso pratico, e Mirella riesce dove gli altri falliscono; altre volte ancora, è questione di attrezzature: nel suo zaino, Mirella tiene sempre colla, spago, mollette, puntine e altre cose utilissime, compresa una forchetta, che è uno degli oggetti più furbi dell’universo. Una volta che era in vena, stranamente, di fare ragionamenti filosofici, Mirella ha infatti sentenziato: “Se allo scienziato che ha scoperto le orbicole dei gratteroni (ma voleva dire: le orbite dei gravitoni) hanno dato il Premio Moplen (ma voleva dire: il Premio Nobel), quale premio mille volte più grande avranno dato all’inventore della forchetta, che è molto più utile?”

Oggi, poiché è arrivata una nuova insegnante, è arrivata in aula anche una nuova cattedra, perché l’insegnante è alta come una pertica. Il problema è che la cattedra traballa e il battere delle sue zampe sul pavimento è un gran fastidio per tutti, ragazzi compresi.

Allora, tutti a cercare qualcosa da mettere sotto la zampa corta, per fermare la cattedra. Ma nessuno ha l’idea giusta e la cattedra continua a essere ballerina, anzi in certi casi è peggio di prima. Per prima, Genoveffa Strombacicci ha messo il suo panino, ma era troppo morbido e, inoltre, ha sporcato tutto di marmellata. Poi, ci ha provato Gigi Proiettili, con le sue figurine dei calciatori, ma ce ne volevano troppe e lui non ne aveva così tante. Calogero Pasqualone aveva trovato la soluzione giusta mettendoci la sua scarpa sinistra, giusta giusta come misura, ma poi in aula c’era troppa puzza di piedi e se l’era dovuta rimettere. L’ultima prova l’ha fatta il bidello, signor Ghiribelli, con una zeppa di legno, ma era troppo alta, la cattedra era tutta storta e le penne, il registro, perfino il telefonino spento della maestra rotolavan giù come biglie.

A questo punto, è entrata in scena Mirella, che non vedeva l’ora. Ha osservato, ha misurato con le dita (due dita e una foglia). Detto fatto, ha infilato un libro e la cattedra si è trovata in perfetto equilibrio.

“Grazie, Mirella.” Ha detto l’insegnante.

“Chissà che libro era.” Si sono chiesti i compagni e, per un momento, se l’è chiesto anche Mirella, per poi dimenticarsene subito.

Ma le è venuto in mente poco dopo, quando un compagno ha chiesto, a voce alta:

“Mirella, ho visto che oggi la cartella ce l’hai, e mi sembri anche in gran forma. Ce lo fai vedere per piacere il tuo nuovo diario?”

“Sì, sì!” Hanno gridato tutti.

“Dai, vediamo il diario di Mirella!” Ha detto anche la nuova insegnante, alla quale uno dei ragazzi aveva bisbigliato in un orecchio tutta la storia del diario di Mirella.

Mirella Tombini, tutta rossa per il dispiacere, pensava che era proprio il diario quel libro che aveva messo sotto la cattedra, e che ora non poteva togliere sennò sarebbero cadute tutte le cose che la maestra e i compagni avevano appoggiato sopra.

Ci pensa un attimo e dice: “Mi dispiace ma il mio diario lo si può vedere solo da fuori. L’ho usato per riparare la gamba della cattedra…”

“La zampa.” Corregge la maestra, sempre molto attenta quando Mirella parla.

“Se però volete, posso farvi vedere il libro di lettura.”

Silenzio. Il libro di lettura ce l’hanno tutti, perché mai vedere quello di Mirella?

“No, no, il libro no, lo conosciamo già.”

“Bene, allora per oggi non vedremo niente.” Taglia corto la maestra.

Mirella è molto contenta, il libro l’aveva lasciato a casa e il suo era un bluff.

“Mi è andata bene, ma forse dovrei mettere qualcosa nella cartella, quando la porto. Mi potrebbe servire, e poi i compagni sarebbero contenti.”

Un giorno, Mirella Tombini ha avuto una magnifica idea: organizzare un pic nic per tutta la sua classe. L’idea le è venuta un pomeriggio che girava con la sua bicicletta nel parco davanti casa sua: c’è un laghetto con degli alberi, delle belle panchine, una fontanella e un’altalena. Mirella ha subito pensato che un giorno avrebbero potuto venire tutti insieme a mangiare qui, passando del bel tempo a correre e a giocare. E anche gli insegnanti, poveretti, avrebbero potuto rilassarsi un po’. Allora, la mattina l’ha subito proposto in classe, e tutti sono stati contenti.

“Io porto il pallone.” Ha promesso subito Calogero Pasqualone.

“Io potrei pensare a portare un mazzolino di fiori.” Ha detto Genoveffa Strombacicci.

“Ma Genoveffa, cosa ce ne facciamo di un mazzolino di fiori in un parco? Semmai, i fiori li troviamo lì!” Ha obiettato Gigi Proiettili.

“Porto dei fiori così ne regalo un mazzetto alla maestra.”

“Sei una bella furbiana.” Ha replicato Gigi, che si è confuso e non sapeva più se voleva dire furbetta o ruffiana. “E comunque non c’entra niente.”

“Io organizzo tutto quanto, così faremo le cose per bene.” Pensa Mirella, che si è proprio messa di buzzo buono: Calogero porta il pallone, Genoveffa porta il mazzolino di fiori e anche una coperta per sedersi, Gigi delle barchette da mettere nel lago, Sandro Cani porta le carte e Isidora Metalli tiene buone le maestre.

“Cosa significa che tiene buone le maestre?” Chiede Calogero.

“Significa che le distrae un po’ mentre noi facciamo troppa confusione e poi le tiene di buonumore.” Infatti Isidora porta il libro delle barzellette di Totti carabiniere.

“Ma così non gioca!” Protesta Calogero.

“Si deve fare a turno. Stavolta non gioca lei, magari la prossima non giochi tu.” Spiega Mirella. Calogero non è molto soddisfatto dalla spiegazione ma suona la campanella.

L’indomani, è il gran giorno. Le maestre, prima di partire, si raccomandano di camminare tutti in ordine, stare attenti, guardare la strada e tutte queste cose che i ragazzi già sanno (ma non le fanno lo stesso, chissà perché).

“Ma soprattutto – dice infine la maestra – vogliamo ringraziare Mirella per questa bella idea e per essersi data da fare per organizzare tutto. Sono certa che non ci mancherà niente e che sarà un pic nic bellissimo.”

Mirella è molto orgogliosa, anche se una vocina dentro le dice che si è dimenticata di qualcosa, di qualcosa che non riesce a capire cos’è. Finalmente, si può andare. La classe raggiunge il parco e tutti giocano, corrono, si divertono, sudano. Qualcuno che corre senza guardare si sbuccia anche un ginocchio, ma succede tutte le volte e poi non sono questi i problemi. Anche le maestre si vede che stanno bene. Solo Mirella è disturbata dal pensiero di aver dimenticato qualcosa, ma non riesce a capire cosa.

Arriva l’ora di pranzo e l’insegnante dice: “E’ ora di mangiare, prepariamoci. Mirella, dov’è il pranzo?”

D’improvviso, le viene in mente: il pranzo, ecco cos’ho dimenticato!

“E ora come faccio?” Pensa Mirella.

In quel momento, un tuono squassa il silenzio e di colpo si mette a piovere a catinelle. Tutti corrono sotto un albero per ripararsi, poi le maestre fanno mettere in fila i ragazzi e velocemente si ritorna a scuola. Lì, nel refettorio, c’è come sempre pronto un pranzetto caldo e, dopo essersi asciugati alla meglio, tutti vanno a pranzo.

“Che sfortuna, Mirella: la tua bella idea rovinata così dalla pioggia!”

“Chissà come sarebbe stato buono il pranzo al sacco!”

“Bhè, comunque ci siamo divertiti. Grazie dell’idea.”

“La prossima volta saremo più fortunati.”

“Brava Mirella, grazie.”

Mirella pensa che è stata molto fortunata e si dice, tra sé e sé: “Come potrei fare, la prossima volta, a ricordarmi di tutto, pranzo compreso? Dovrei annotarmi le cose sul diario…”

Ma si sa che il diario di Mirella Tombini, nessuno, neanche lei, sa mai dov’è.

Mirella Tombini ha deciso che da oggi in avanti andrà a scuola in bicicletta. Le piace molto l’idea, le pare profondamente tecnologica. Mirella non sa nulla di inquinamento, di rispetto delle risorse, in traffico urbano (oddìo, di quello si accorge abbastanza anche lei) e quindi ignora di compiere un gesto politicamente impegnato. No, a lei piace la bicicletta perché si va più veloce che a piedi.

Nessuno dei suoi compagni va a scuola in bici: Genoveffa Strombacicci viene acompagnata ogni mattina dai genitori in macchina, Gigi Proiettili abita a due passi e quindi “fa due passi” ogni mattina, Calogero Pasqualone un po’ questo un po’ quello e comunque mai con la bicicletta.

Mirella la bicicletta non ce l’ha e non vuole chiederla ai suoi genitori. Le sembra già un’enormità aver chiesto loro di acquistare il diario per poi non sapere mai dov’è, quindi ha deciso di procurarsela da sola.

Dai discorsi che sente dai grandi, ha capito che le biciclette vengono sempre rubate e che questa è la ragione per cui sono sempre cariche di lucchetti e incatenate ai pali della luce, al marciapiede e ad altre biciclette incatenate loro pure.

Mirella è uscita per andare a caccia di biciclette. Riflette sul fatto che, dal momento che tutte quante sono variamente chiuse col lucchetto, se putacaso ne trova una aperta significa che è abbandonata, quindi può prenderla per sé. Anzi, sarà un gesto meritorio perché in questo caso avrà liberato la città da una cosa abbandonata.

Il primo giorno di caccia l’ha iniziato a scuola. E’ stato infruttuoso ma istruttivo. Infruttuoso perché a scuola con la bicicletta ci vanno pochissimi bambini e quasi tutti più grandi di lei, a giudicare dalla misura delle bici. Istruttiva perché comunque è proprio vero che le biciclette con dei padroni hanno molti lucchetti: questo significa sicuramente che quelle senza lucchetti vuol dire che sono abbandonate, come dei cani senza famiglia che nessuno gli dà da mangiare.

Non c’entra molto, pensa Mirella, però osserva anche che tutti quei lucchetti sembrano quei grappoli che ha visto in televisione nei ponti, e le torna in mente che tutti parlano sempre del ponte della città che vorrebbero scambiare col formaggio (roma per toma) ma lei si ricorda che i lucchetti li avevano inventati nella città col ponte vecchio più vecchio del mondo. Chissà se hanno inventato lì anche la bicicletta.

Mirella va a caccia per giorni e giorni, al pomeriggio, dopo fatti i compiti, ma biciclette senza lucchetto non ne trova. Finalmente, quando sta per rinunciare, eccola: una bici da donna, com’erano una volta, piuttosto grande per lei, con le ruote sgonfie e… senza lucchetto!

La prende e la porta a casa, tenendola per il manubrio, chiede al vicino, il signor Ciampoli, di gonfiare le gomme, e va a dormire felice. Lo stress della ricerca è stato troppo forte e si addormenta di colpo.

L’indomani mattina, senza dire niente a nessuno, sfreccia a scuola con la sua biciclettona, senza mai sedersi sul sellino perché non ci arriva. Agli incroci le macchine la lasciano passare perché si preoccupano un po’ di vedere tutto quel ferro guidato da una bambina così piccola, ma insomma in qualche modo arriva. E’ molto soddisfatta.

La mattina passa in un attimo, Mirella pensa solo alla bicicletta ma per fortuna a nessuno viene in mente di interrogarla.

All’uscita, si precipita verso la bicicletta. Ci sono proprio lì i due bidelli, Millimetro e il signor Ghiribelli. Il secondo tiene la bicicletta per il manubrio e dice al primo: “Proprio non capisco chi l’abbia riportata qui. L’altro giorno l’avevo appoggiata a un marciapiede, in centro, perché aveva le ruote sgonfie ed ero andato a comprare una pompa. Credevo me l’avessero rubata e invece eccola qui! Chi sarà stato?”

“Un angelo, forse?” Sanno tutti che Millimetro è molto religioso.

Mirella è un po’ dispiaciuta ma anche un po’ contenta perché si rende conto che il signor Ghiribelli vuole davvero bene alla sua bicicletta. Quindi si avvia a piedi verso casa pensando: “Cercherò sulle Pagine gialle il numero del biciclettile, dove si possono adottare le biciclette randage e abbandonate.”

lunedì 18 ottobre 2010

Il Tempo ed il suo opposto

Cari amici, questo è il primo tentativo di scrittura condivisa a cui siete invitati a partecipare, sempre che la proposta vi diverta.
Sappiamo di una scuola filosofica che propone una idea secondo la quale il Tempo è una dimensione abitata da creature esclusive, una "geografia" piuttosto che una linea. Una dimensione nella quale è possibile viaggiare perché non esiste un passato concluso o un futuro del tutto da scrivere, semmai in parte già scritto. Naturalmente viaggia nel Tempo chi "sa", colui che ha mezzi e conoscenze per farlo.
Ma noi, qui, possiamo farlo con la libera fantasia. Io provo a scrivere degli appunti. Chi ha piacere, ne aggiungerà altri, attraverso la sezione commenti, o aggiungendo nuovi post.


Se ogni cosa, come sembra, ha il suo opposto, anche il Tempo ne ha una: l'Antitempo.

L'antitempo fu scoperto, anzi sarà scoperto, nel 2037, attraverso una serie di esperimenti di fisica "di confine" svoltisi in un nuovo laboratorio di accelerazione particellare di punta. Ma ahimé, questa scoperta ebbe, o avrà, un costo umano molto elevato. Nel laboratorio infatti, si crearono dei buchi neri che, per quanto molto piccoli, furono in grado di risucchiare alcuni ricercatori ed alcune preziose attrezzature al'interno dei buchi stessi, facendo scomparire il tutto. Quelli che restarono vivi e presenti, non potevano essere certi che i loro compagni fossero morti, essendo il loro corpi letteralmente spariti.
Ma dal nostro punto di vista, noi possiamo immaginare che essi sopravvissero, venendo catapultati in una dimensione opposta: L'anti-tempo.
Allora, proviamo ad immaginare i presupposti di questo mondo: Il primo assunto fondamentale è che tutto si svolge all'esatto opposto di quello che conosciamo qui. Facciamo alcuni esempi, che rappresentano i futuri mattoncini con cui andiamo a costruire il castello.

Presupposti (modificabili)

  • Il tempo scorre dal futuro al passato;
  • le "persone" vivono prevalentemente al buio, e non utilizzano la vista ma altri sensi più compatibili;
  • la gravità funziona al contrario, per cui non incolla i corpi verso il basso, ma li risucchia verso l'alto, al limite di una sfera di contrasto tra gas particolari della stratosfera del pianeta, ove essi si trovano in equilibrio e sono liberi di volare. Per loro la superficie della Terra è una conquista possibile.

Alcune domande fondamentali a cui rispondere, per portare avanti il gioco:

  • Come sono i loro corpi? Se non hanno i piedi, cos'hanno?
  • Gli abitanti dell'antitempo, usano oggetti? come li hanno fabbricati?
  • Come si svolge la loro vita quotidiana?
  • Hanno una vita affettiva, si accoppiano, come si riproducono?
  • Come studiano, come imparano?
  • Come si troveranno i ricercatori risucchiati nell'antitempo?
  • Avranno la sensazione della fisicità, oppure crederanno di essere dei fantasmi eterei?
  • Come riusciranno a capire di non essere morti, e soprattutto di non essere soli?
  • Come riusciranno a vincere la loro paura del buio e del vuoto?
  • Crederanno ancora nel dio del cielo e nell'illuminazione? o crederanno nel dio ideale della terra e nella "rabbuiazione"?
  • Una volta ambientatisi, avranno ancora voglia di tornare nel loro mondo di origine?